Definire il rapporto tra la quantità di piccoli e grandi terremoti osservati in passato e attesi in futuro in Italia (scientificamente “b-value”) è possibile. Come? “Con la geodesia satellitare, uno strumento fondamentale poiché consente di stabilire se, nel corso dei decenni, la distanza tra due punti della superficie terrestre in zone soggette a eventi sismici stia aumentando o diminuendo”, spiega Michele Carafa, ricercatore dell’Ingv (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) e co-autore di uno studio pubblicato sulla rivista “Communications of Earth and Environment” di Nature.
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La legge di Gutenberg-Richter
La legge di Gutenberg-Richter alla base della determinazione di questo lavoro stabilisce infatti che il numero di terremoti osservati diminuisce con l’aumentare della magnitudo: in altre parole, si osserva un numero molto maggiore di piccoli terremoti rispetto a quelli di grande entità.
Cruciali i dati geodetici
I ricercatori dell’Ingv che hanno condotto lo studio si sono serviti di dati geodetici e di un approccio statistico per comprendere, a partire dalla misurazione di piccolissime deformazioni della superficie terrestre, l’intensità delle forze tettoniche che governano il nostro Pianeta e la reazione che queste generano sulla crosta terrestre.
Previsioni sui forti terremoti
Grazie alla geodesia satellitare, continua Carafa, “possiamo attenderci in futuro dei terremoti di tipo compressivo, se la distanza tra i punti sulla superficie terrestre sta diminuendo, oppure estensionale, se la distanza sta invece aumentando”. Poiché il b-value non è spazialmente uniforme ma può variare a seconda dell’area geografica di riferimento, lo studio dell’Ingv ha analizzato parallelamente le zone in estensione e quelle in compressione del nostro Paese, con l’obiettivo di ottenere maggiori informazioni sul numero di forti terremoti attesi nelle due aree.
“I valori di b-value emersi dal nostro lavoro sono effettivamente diversi per le due zone (le aree in estensione hanno un b-value più alto di quelle in compressione), ma molto più vicini tra loro di quanto si potesse pensare”, aggiunge Matteo Taroni, ricercatore dell’Ingv e co-autore dello studio: “Ciò significa che il comportamento delle magnitudo dei terremoti in zone geologicamente differenti è in realtà abbastanza simile”.
Stimare la pericolosità sismica
Calcoli statistici hanno poi confermato come l’approccio geodetico con la suddivisione del territorio nazionale in due sole zone di analisi abbia dato risultati più efficaci rispetto a suddivisioni precedenti in aree più piccole, aprendo la strada a possibili future collaborazioni tra il mondo della modellistica geodetica e quello della sismologia statistica.
“Poiché il b-value è uno dei parametri fondamentali utilizzati per la stima della pericolosità sismica di un territorio, ci auguriamo che altri lavori confermino i risultati del nostro studio, cosicché questo nuovo approccio possa essere utilizzato per migliorare il modello di pericolosità sismica italiano, vale a dire il documento alla base di tutte le azioni di mitigazione e prevenzione del rischio sismico nel nostro Paese”, concludono Taroni e Carafa.