La stella più lontana mai osservata si chiama Earendel ed è l’ultimo regalo del telescopio spaziale Hubble che è riuscito a catturarne la luce dopo che ha percorso 12,9 miliardi di anni luce battendo Icarus, osservato nel 2018 e la cui luce invece aveva percorso “solo” 9 miliardi di anni luce prima di infrangersi sulle lenti del telescopio lanciato nel 1990 e frutto del lavoro congiunto di Nasa e Esa.
Earendel (dall’inglese antico che vuol dire “stella del mattino”) è una scoperta straordinaria anche per altri motivi scientifici. Studiando infatti la sua luce e il suo redshift (l’allungamento dell’onda elettromagnetica associata alla luce stessa man mano che viaggia nello spazio) gli scienziati si sono accorti che è pari a 6,2 mentre per Icarus era di 1,5. Questo vuol dire che la luce osservata da Hubble è partita quando l’universo era al 7% della sua vita ed Earendel sarebbe dunque una stella molto più anziana tanto che si ipotizza potrebbe appartenere al gruppo Popolazione III del quale fanno parte le prime stelle formatesi entro il primo miliardo di anni dopo il big bang. La loro caratteristica è di essere “leggere” perché composte solo di elio e idrogeno primordiale al contrario invece delle stelle più giovani, cariche di elementi pesanti.
È il caso del nostro Sole, rispetto al quale Earendel è grande almeno 50 volte di più e migliaia di volte più luminosa a tal punto da poter rivaleggiare con le stelle più luminose finora conosciute. L’ipotesi è che possa essere anche una stella doppia, come spesso accade per stelle di tali dimensioni. L’osservazione di Earendel è stata facilitata anche da un colpo di fortuna: la presenza di un ammasso di galassie denominato WHL0137-08 e che ha deformato il tessuto spazio-temporale (effetto Sunrise Arc) “accorciando” il percorso della luce, grazie ad increspature elettromagnetiche (definite “caustiche”) che funzionano come quelle che si formano sulla superficie dell’acqua: amplificano e deformano la luce.
Lo studio scientifico sulle osservazioni di Hubble è stato redatto da un team di ricercatori condotti da Brian Welch, della Johns Hopkins University di Baltimora e pubblicato sulla rivista Nature lo scorso 30 marzo. Welch si è servito dei dati raccolti dallo Space Telescope Science Institute (STScI) di Baltimora, operato dalla Association of Universities for Research in Astronomy di Washington, D.C. mentre la gestione del telescopio è a cura del Goddard Space Flight Center della Nasa a Greenbelt, sempre nello stato del Maryland. Se le scoperte di Hubble fossero confermate, si aprirebbe un nuovo capitolo dello studio dell’Universo che porterebbe a verificare altre ipotesi già formulate e ad approfondire gli accadimenti che hanno caratterizzato le prime fasi di formazione del cosmo così come è ora.
“Studiare Earendel sarà una finestra su l’universo che non conosciamo, ma che ha condotto a come lo conosciamo oggi. È come se avessimo letto un libro interessante, ma partendo dal secondo capitolo, mentre ora avremo la possibilità di vedere come tutto è iniziato”. E questo primo capitolo potrà essere letto con calma dal telescopio James Webb, inviato in orbita lo scorso dicembre. Gli scienziati infatti si aspettano che Earendel rimarrà visibile per alcuni anni e l’alta sensibilità ai raggi infrarossi del nuovo telescopio aiuterà a misurarne meglio l’età, la distanza e le altre caratteristiche. La speranza ulteriore è che il James Webb possa portare gli occhi dell’umanità ancora più lontano di quanto il suo glorioso predecessore stia dimostrando di poter fare anche dopo oltre 30 anni di servizio.