L’industria dei lanci spaziali potrebbe trovarsi presto in difficoltà per soddisfare tutta la domanda che proviene dal settore pubblico e governativo, ma soprattutto da quello privato e commerciale. Da parte sua però deve bilanciare al meglio gli investimenti nel breve periodo per non trovarsi sovradimensionata nel lungo termine.
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L’evoluzione della space economy
Queste sono le conclusioni dello studio “Space launch: Are we heading for oversupply or a shortfall?” di McKinsey & Company e che, oltre a fornire una panoramica della space economy – nel 2021 il giro d’affari è stato di 469 miliardi di dollari, il 9% in più rispetto al 2020 facendone il miglior anno dal 2014 – analizza l’industria dei vettori di lancio grazie al quale i costi sono crollati: in pochi anni si è passati, per ogni kg portato in orbita bassa, da 65.000 dollari a 1.500 dollari, ovvero il 95% in meno con la prospettiva che scendano fino a 100 dollari.
Perché i costi calano
Tale soglia, ipotizzata anche da altri studi, si abbasserà ulteriormente ed in modo drastico grazie alla crescente concorrenza, ai progressi della tecnologia, alle economie di scale e allo sviluppo di una nuova generazione di lanciatori caratterizzati dall’utilizzo di propellenti più economici e dalla possibilità di essere riutilizzati più volte. Tali evoluzioni sono dovute principalmente a SpaceX, dapprima con l’introduzione del Falcon 9 e del Falcon Heavy. Negli anni a venire, la svolta sarà data dallo Starship.
I numeri sui satelliti
Secondo i calcoli di McKinsey, attualmente ci sono quasi 7.500 satelliti attivi intorno alla Terra e ne vengono lanciati in media 50 alla settimana con un aumento del 15% rispetto al 2017. Circa 5mila sono per comunicazioni, 1.500 per sviluppo tecnologico e comunicazioni e i restanti mille per Osservazione della Terra. La spinta maggiore sta già venendo dai primi tanto che nel 2030 potremmo avere oltre 100 nuove costellazioni in orbita e ben 67.000 satelliti, dei quali solo 3.000 per scopi diversi dalle comunicazioni.
I tre scenari possibili
Per i numeri finali che tuttavia potremmo ritrovarci alla fine del decennio, la società di consulenza di Chicago propone tre differenti scenari nei quali la quantità, le dimensioni medie dei vettori e le tempistiche di applicazione rappresentano i fattori fondamentali. Il primo scenario per il 2030, definito mediano o di base, prevede 24.000 satelliti con una massa media di 870 kg. Tale livello ha bisogno di 4-5.000 nuovi satelliti all’anno, considerando una vita media di 6 anni, con una capacità di lancio pari a 4,5 milioni di kg.
Forbici consistenti
Lo scenario più basso prevede invece 18.000 satelliti con una massa media di 540 kg e un periodo di servizio leggermente più lungo (6-8 anni). In questo caso ci vorrebbe una capacità totale di lancio inferiore a 2 milioni di kg. Solo in questo caso, la capacità di lancio sarebbe commisurata, anzi sarebbe sovradimensionata per i vettori medi e pesanti. La scenario più alto prevede invece 67.000 satelliti con una massa media di una tonnellata, un vita media inferiore ai 6 anni e una capacità di lancio annuale pari a 15 milioni di kg.
Tra abbondanza e carenza
In quest’ultimo caso, ci sarebbe una carenza di capacità pari 11.700 tonnellate fino al 2025, l’equivalente permesso da 300 vettori pesanti o 800 medi. Questo vuol dire che tutti i programmi di sviluppo delle costellazioni subirebbero ritardi nel breve termine fino al 2025. Questo scenario è inoltre legato a doppio filo a Starship ed è attuabile solo nel caso in cui il grande razzo di SpaceX raggiungesse la piena operatività nei tempi previsti (l’obiettivo è una flotta di 30 booster e 60 navicelle) e il Falcon 9 mantenesse un ritmo medio di 120 lanci all’anno.
L’offerta in preparazione
Il resto dell’industria di lanci si sta comunque organizzando con vettori di nuovi generazione e sostituendo quelli attuali. L’Ariane 6 di Arianespace, l’Altlas 5 e il Vulcan di Ula, gli H2 e gli H3 della Mitsubishi Heavy Industries, gli Antares 230+ della Northrop Grumman, gli Slv della Isro, ma anche il New Glenn di Blue Origin ai quali si aggiungono Firefly e Rocket Lab sono i nomi citati dal rapporto di MicKinsey e i cui piani sono tuttora in fase di definizione. In ogni caso, se Starship mantenesse le promesse potrebbe partire ogni giorno portando ogni volta in bassa orbita oltre 100 tonnellate di payload abbassando il costo di lancio a 100 dollari/kg.
Perché Starship è game changer
Considerando che l’Ariane 6 prevede di fare 11 lanci all’anno, il New Glenn una dozzina e Ula arriverebbe a 30, si capisce perché Starship sia un game changer, ma l’industria deve considerare uno scenario nel quale Starship sia in ritardo sui tempi, rallentando l’intera space economy e i programmi di SpaceX stessa per Starlink di seconda generazione. Al contrario, se anche gli altri operatori riuscissero a mettere in campo i loro rispettivi vettori pesanti e quest’ultimi si rivelassero affidabili, ci ritroveremmo con un eccesso di offerta e una finestra di opportunità, ma anche di rischi per l’industria per il ritorno dagli investimenti e il controllo dei costi. L’optimum sarebbe sviluppare una piattaforma flessibile riducendo i costi fissi.
Ogni scenario un andamento
Altro elemento fondamentale riguarda i diversi andamenti a seconda dei tre scenari previsti. Se si verificasse quello a domanda più elevata, l’aumento sarebbe molto rapido per poi diminuire gradualmente con lo stabilizzarsi della massa critica delle costellazioni. Per lo scenario mediano o di base la curva sarebbe meno appuntita con un appiattimento e un picco anticipati rispettivamente al 2027 e 2028 a cui seguirebbe una lieve flessione. McKinsey segnala inoltre un altro fattore secondo il modello Monte Carlo: i nuovi vettori, così come i vecchi, non raggiungono la loro piena efficienza prima di 6 anni. Dunque conviene a tutti partire prima per ottimizzare l’utilizzo della propria flotta e dunque i profitti che si possono ottenere.